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   FESTA DI S.MARTINO
    11 novembre: S.Martino  |  La svinatura |  La piazza |  La Cuccagna |  L'impresa personale  


Ricordi del Dr. Giovanni Turziani, medico eugubino (Gubbio 1911-2008)
Libera riduzione del racconto pubblicato in: "Le corti sul fosso", 1973.



 11 novembre: S.Martino


"La nebbia agli irti colli
piovigginando sale"


Fin dal mattino. Umidiccio nell'aria, nelle case; poltiglia in terra, viscida, melmosa; atmosfera pesante un po' ovattata; grigiore ovunque, in cielo e nelle strade.
Pigra, quasi in attesa, trascorre la mattinata ed i cuori accende, nel desiderio.
Al tocco, il pranzo è fatto, in fretta; la gente è pronta.
Vie e viuzze si popolano, i vicoli rigurgitano, ruscelli umani si riversano nel quartiere, alla festa di S. Martino, ininterrottamente, per tutto il pomeriggio, fino a sera, da ogni parte.
Incollato alla mano di mio padre, percorro ansioso i "vicoli dell'abbondanza", lungo il magro torrente. Si chiacchiera per strada, siamo un bel gruppo: c'è il signor Virgilio, c'è il dottore, c'è il "sor Cencino", ci sono gli altri: la combriccola del babbo, quelli dello scopone della sera, lì da Solano. Si conoscono da anni, da sempre direi; sono allegri, bonari, sereni.
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 La svinatura


…..non è una giornata qualunque, non è una festa qualunque; oggi è il giorno della "svinatura": questa è la vera festa, la vera ricorrenza, nel suo contenuto essenziale.
Grandi scappellate e larghi sorrisi s'incrociano e rimbalzano dagli uni agli altri, sono "signori" di S. Antonio (la parte est della città dove abitavano, in prevalenza, nobili e ricchi), è vero, ma non disdegnano la plebe che li conosce e li stima. Oggi, poi, si sentono tutti eguali quelli che sono là, tutti "Sammartinari".
- dove andiamo prima, dalla "Nina" o dalla "Tota"? -
- Io passerei da "Caino" che ce lo deve avere bono -
- L'Erminia ci ha fatto sapere che ha un vino bianco delle vigne che fa "gozzo gullino", perché non passiamo prima da lei? -
Chi punta per l'una chi per l'altra osteria. La decisione alfine matura: prima dalla "Tota".
È un po' fuori mano, fuori porta; ma non conta. Il passo si accelera; la mano paterna stringe e tira, un po' più forte. Io mi adeguo, a malincuore: non ho scelta!
…..Percorsi i "vicoli dell'abbondanza" si attraversa il ponte sul torrente; di lì a poco la piazza, teatro della festa, si presenta disadorna: ancora è presto infatti, non tutto è pronto.
Il palco per la banda musicale è vuoto, gli striscioni colorati sono pochi, i palloncini veneziani spenti, la gente rara ed ancora un po' legata.
Fervono i preparativi, due uomini in cima ad una scala stanno inchiodando sul muro della casa di fronte alla chiesa un ritratto di "Gambine", perché oggi è anche il genetliaco del Re (Vittorio Emanuele III). Intorno al ritratto, benché gli abitanti del quartiere siano quasi tutti repubblicani e "sovversivi", hanno messo fiori e lampadine, come alla Madonna; anzi, come al Bambin Gesù, precisa uno che passa, in quel momento, perché se gli levi i baffi, "il resto è piccolo tutto eguale come un bambino".
Si oltrepassa la piazza, ci si inoltra per altri vicoletti, dietro il Teatro. Poi la "Tota", finalmente!
"Bona sera, sora Tota"
"Ooh! Guarda chi si vede! Come va, maestro?"
"Non c'è male, e voialtri"
"Sor Cencino, salute"
"Salute a voi tutti!"
"Allora, com'è questo vino delle vigne?"
"Fa rinascere i morti sor dottore!"
"Spero di no, perdio; altrimenti mi tocca scappar via di volata"
Tutti ridono. L'ambiente è familiare, caldo, sereno, alla buona.
C'è un odore aspro di vino dappertutto; c'è fumo, rumore, baldoria.
C'è anche un pergolato con la tavola di marmo rotonda all'aperto; ma fuori è freddo. Nella stanza della mescita c'è troppa gente, tanta: fuma, grida, si pigia, bestemmia, sputa per terra; urtoni, spintoni, manate, gomitate, piedi pesti, aria opaca, irrespirabile; facce allegre, contente, arrossate, congestionate.
"Vi fo sentire il bianco e il rosso?"
La decisione è semplice ed unanime: bianco e rosso, tutti e due, insieme; si fa prima.
"Si fa uno spuntino?" domanda il babbo.
"Ancora no, è troppo presto", dicono gli altri.
"Io voglio le castagne" dico categorico.
La mia azione è cominciata. Non c'è niente da fare; le castagne sono già nella mia tasca. È bene, bontà loro, tenermi quieto.
Bicchieri contro luce, colore e limpidezza del vino sono studiati attentamente; poi si annusa a riprese; con leggero schiocco della lingua infine si assapora.
Seri, compunti, statuari, assaggiano e si guardano, senza parlare. Si accenna qualche tentennio del capo, sguardi di intesa si incrociano al di sopra degli occhiali, interrogazioni rapide degli occhi curiosi si intrecciano, L'assaggio è fatto!
Non ho detto che il "giro" degli assaggi ha uno scopo, ben preciso, secolare: trovare la qualità del vino "nostrale" che piaccia a tutti, affinché Solano, l'oste dello scopone, se ne rifornisca per la comitiva, per tutto l'inverno.
La ricerca continua.
Poi via, di nuovo, altri assaggi, parecchi assaggi;
Le teste cominciano leggermente ad annebbiare, le lingue non sono più spedite, hanno qualche difficoltà, qualche incertezza, le gambe, almeno per ora, sono a posto.
Il "giro" è finito. La scelta è fatta. Il "rosciolo" della Tota ha vinto. La piazza si avvicina, la festa sta per cominciare; con essa comincerà il "mio" giro, la "mia" ora.
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 La piazza


È quasi buio. Tutt'intorno alla piazza i palloncini danzano luminosi ondeggiando sotto il fresco alitare del vento che spira dalla gola tra i monti; le lampadine bianche rosse e verdi coronano "Gambine" che sorride tra i baffi; la banda col berretto bianco e gli spartiti aperti è pronta sul palco, aspetta il via; c'è anche lo zio Romolo, che è primo clarino; c'è anche Arcangiolino, che è la prode cornetta; ci sono tutti.
C'è naturalmente anche il direttore della banda. Si chiama "Maestro Secca".
Alle finestre di S.Domenico ci sono le "Signorine" del liceo (le insegnanti, in genere anziane, tutte terziarie francescane).
Le botteghe sono illuminate, a giorno; la vetrina del macellaro presenta un bel maiale spaccato a metà appeso al soffitto con le zampe posteriori. Povera bestia! È tutta infiocchettata con nastri rossi e azzurri; è in festa anche lei, conciata in quel modo!
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 La Cuccagna


Nel mezzo della piazza, la "Cuccagna".
Grosso, robusto, un alto palo, infisso nel terreno, si drizza ardito alla conquista del cielo. Al suo estremo, su, in alto, c'è legato ogni ben di Dio: salsicce, salami, piccioni, mortadelle, fiaschi di vino e che so quanta altra roba, da strabuzzare gli occhi e rifinire lo stomaco. Ecco il grande ideale: conquistare quella cima, tentare come gli altri, arrampicarmi fin lassù. Che bello sarebbe!
Quella benedetta mano del babbo, però, che disperazione! Come stringe!
La banda attacca. È una marcetta allegra, entusiasmante, che tutti avvince. La piazza sembra fermentare; è gremita di gente che si pigia, si saluta, si schernisce, si diverte; gente che si cerca, che si trova, che si perde, che si chiama, da lontano, da vicino. Chi parla, chi scandisce col capo la marcetta, chi corteggia la bella popolana, chi gira rapido l'angolo della farmacia per una necessità impellente, chi entra nel caffè di "Oreste de Gigione" che oggi finalmente fa affari, chi combina qualche scherzo, chi è già ubriaco e parla tutto solo. Un gruppo, da un lato, canta a squarciagola per conto suo una canzone, incomprensibile nel grande frastuono della piazza.
La marcia è finita; la banda si tace; l'applauso è lungo, caloroso; il maestro Secca si inchina soddisfatto.
La folla si assiepa attorno al palo, impaziente.
Il primo concorrente si presenta. Dorso nudo (con quel freddo!), muscoloso ; brache corte rattoppate; niente scarpe.
Incomincia la salita; qualche bracciata energica, qualche progresso iniziale, poi l'immancabile arresto, poi uno scivolone e un altro ancora e sforzi disperati per trattenersi; incominciano le risate della piazza intera che si diverte, che incita, che tifa.
Appena due metri da terra il palo è fortemente unto di un morbido grasso, più spesso man mano che si procede verso l'alto. Gli sforzi degli scalatori si infrangono così contro quella viscida barriera impalpabile e dopo la prima breve avanzata ecco inevitabilmente gli scivoloni, le mosse inconsulte buffe, comiche nel tentativo di resistere. Poi , fatalmente, una scivolata più rapida, infrenabile, fino a terra. La conquista della cima è ancora una chimera.
"sotto un altro" dice una voce, ogni tanto.
E così via, uno dopo l'altro, si cimentano, crollano, ritentano, con puntiglio, giovani e ragazzi. La piazza ride, convulsamente, spasmodicamente. Anch'io rido, anche il babbo, gli amici, tutti. La gara continua, instancabile. Più tentano la sorte, più il palo intanto si ripulisce del suo grasso; perciò più tempo passa, più la vittoria diviene possibile.
I concorrenti però (è regolamento) restano sempre gli stessi, con gli stessi panni oramai tutti unti, con lo stesso turno.
Ecco alla fine avanzare "Zanzara".
È un ragazzo piccino, magro, armonico; faccia sveglia, riso aperto.
Inizia la salita, lento, preciso; con stile va su, sempre più su, è eccitante.
La folla non si contiene; è tutto un urlìo, un baccano assordante. Le donne strillano con forti acuti, gli uomini vociano ammiccando, alcuni fischiano alla "pecorara"; tutti battono le mani, incitano.
La salita di "Zanzara", prosegue, sempre più difficile, ogni tanto interrotta da una sosta per prendere fiato, alle volte con qualche scivolone subito trattenuto con maestria.
La piazza sente che lui trionferà. Anch'io lo sento e lo invidio; mi sembra un Dio, un conquistatore, un Maestro.
La mano paterna stringe sempre più; sente il mio fremito, incontenibile, il mio mugolìo eccitato: gli occhi sono dilatati, il petto affanna. Che bello! Ed io perché no?
Il chiasso della piazza è vertiginoso; gli incitamenti si susseguono con tutti i mezzi, con tutti i suoni. Le urla, gli strilli, i fischi, tutto, tutto è al parossismo. Zanzara trionfa, eccolo, sì, ha toccato le salsicce: il palio è suo!
Uno squillo di tromba saluta il vincitore; un battimani frenetico di tutta la piazza gli fa coro, prolungato. Anche il babbo batte le mani; anch'io le batto, finalmente libere.
La banda attacca un'altra marcia, la gente fa ressa intorno al trionfatore, le luci sono più brillanti di prima, i baffi di "Gambine" sembrano muoversi per partecipare alla festa generale e congratularsi; quasi tutta la piazza canta in coro:
"è finita la cuccagna
e il vino della vigna"…..
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 L'impresa personale


Non ne posso più! Scatto improvviso, mi avvicino fulmineo al palo, comincio la scalata, anch'io.
Oooohh! Tutto rapidissimo.
Il babbo, mio avversario diretto, è stato colto di sorpresa; solo quando sono a metà palo e tutta la gente guarda l'inaspettato supplemento di spettacolo, si accorge che quell'arnese lassù in alto sono io.
La sua faccia buona guarda sbalordita; il gruppo degli amici lo circonda ridendo e mi addita; il dottore fa cenni di minaccia con le mani scuotendo la testa in benevola disapprovazione.
La banda suona, la gente guarda me, questa volta, perbacco!
Seguito a salire, a fatica, ma seguito: ormai sono compromesso!
Come abbia fatto a togliermi le scarpe in un baleno è ancora oggi un mistero per me. I calzini, però, li avevo conservati e mi facevano un gran comodo per quella salita che non finiva mai. I pantaloni del vestito buono delle feste con la giacca a tre bottoni ed il fiocco rosso al collo: io sì che sono un concorrente di riguardo! E poi uno di S. Antonio, di quelli cioè che non "son buoni" a queste cose! Glielo farò vedere io!
L'onore del quartiere è nelle mie braccia!
Seguito a salire, stimolato da queste riflessioni; qualche scivolone anch'io, subito trattenuto e un poco di astuzia, contro quel residuo di grasso.
Con la manica della giacca del vestito buono (che occhi e che gesti faceva il babbo dalla piazza!) prima strofino accuratamente il legno, a monte; poi la mano si afferra al legno ormai pulito e si tira su più sicura. E così avanti: pulizia preventiva e piccolo passo susseguente; anch'io, fino in cima, vittorioso!
Questa emozione! Che momento indimenticabile!
La piazza applaude, la banda continua la marcetta mai interrotta durante la mia fatica, il babbo è sempre più esterrefatto.
Vedo lo zio Romolo che zufola e mi guarda; anche il maestro Secca, la testa girata, guarda ridendo e lascia le sapienti mani dirigere da sole.
Ancora un'occhiata compiaciuta alla folla nella piazza; poi la scesa, rapida, a "candeletta". Trovo le scarpe; non le metto. Debbo filare, di urgenza; ho appena il tempo di chinare la testa e sentire il fruscio di una mano che ha sfiorato il bersaglio, ed è un sussurro minaccioso: "a casa faremo i conti, lazzarone!"
Dileguo fra la gente, con le scarpe in mano, velocemente.
Quanta ingiustizia sulla terra!
A Zanzara tutti gli onori, lo squillo della tromba, gli applausi ufficiali della folla, tutta quella roba lassù in cima per premio.
A me, niente squillo di tromba, niente applausi, niente roba; solo il sibilo di uno schiaffo per ora andato a vuoto, serio preludio di prossime inevitabili burrasche.
Peccato! Quando si è incompresi, che rabbia!
Comunque, ho vinto anch'io. Evviva la cuccagna!
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