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LA BANDA di ZIGO | ||
Premessa |
Innanzitutto
alcune brevi premesse. |
Alcuni precedenti sul banditismo nella zona di Gubbio |
Il territorio del comune di Gubbio, come quello di altre parti dell’Italia centrale, fu sempre funestato dal fenomeno del banditismo. E’ sufficiente scorrere il carteggio del locale governatore con il gonfaloniere eugubino (prima dell’Unità d’Italia) e del rappresentante di pubblica sicurezza con il sindaco, per trovare ampi riscontri a questa affermazione.Le principali vie di comunicazione erano terreno di frequenti agguati perpetrati dai grassatori soprattutto a carico dei viaggiatori e dei mercanti che si recavano alle numerose fiere che si tenevano periodicamente nell’Eugubino e nei comuni limitrofi. La risposta del governo centrale e delle istituzioni preposte fu sempre largamente insufficiente e anche di ciò si trova frequente riscontro (non senza qualche polemica) nel carteggio del sindaco pro tempore di Gubbio. Le bande che via via operarono nel vasto ed impervio territorio, si organizzarono attorno alla figura preminente del capo, ebbero durata stagionale e operarono in limitati settori geografici, non lontano dalle abitazioni dei membri del gruppo e dai luoghi di solita residenza, magari appoggiandosi a persone fidate o a veri e propri complici. Molti appartenenti alla massa dei cosiddetti “oziosi e vagabondi”, vero serbatoio di provenienza per la maggior parte dei componenti delle bande, parteciparono con frequenza più o meno alta ai colpi del nucleo principale del gruppo criminale. La banda di “Zigo” e dello “Zingaro” non fece certo eccezione a queste regole generali. |
Zigo e la sua banda |
Santi-Granci Sante detto
"Zigo" fu, con
Magrini Ercole detto lo
"Zingaro", il più “celebre” brigante del
territorio eugubino.
Tutti i reati furono commessi nelle zone di Umbertide, Pietralunga, Gubbio, Gualdo Tadino e Fossato di Vico.
Per comprendere meglio lo stato di
terrore a cui furono sottoposti gli abitanti dei detti luoghi, basta
leggere alcuni passi dell’atto di accusa del 1872: |
Sante e Giovanni Santi-Granci: i primi reati |
Sante Santi-Granci nacque a Morena dove fu battezzato il 28 luglio 1831. Come suo fratello Giovanni, nato nello stesso luogo nel 1835, anche Sante fu soprannominato Zigo. Il primo reato di cui si ha notizia riguarda Giovanni che nel 1854 fu arrestato per due volte con l’accusa di taglio di piante non autorizzato e vendita di pane di contrabbando. Zigo, invece, fu condannato per un altro reato alla pena della reclusione da scontare nel carcere eugubino. Alla fine del 1860, non si sa bene per quale motivo, fu trasferito - forse momentaneamente - a Perugia. Sante evase nel 1862, probabilmente dal carcere di Gubbio, ed iniziò così la sua carriera di brigante e di bandito.
Zigo, per ricettare la refurtiva, si
servì spesso del fratello Giovanni il quale è ricordato nell’atto di
accusa proprio per questo tipo di crimine. Dai documenti processuali non risultano imputazioni per il triennio 1863-1865. |
L’ingresso dello Zingaro nella banda |
Dall’atto di accusa del 1872 risulta che
Ercole Magrini, maceratese, iniziò a frequentare la banda nel marzo
1866. Con l’ingresso nella banda dello Zingaro il livello delle attività criminose salì di tono, tanto da giustificare l’ipotesi di una netta prevalenza del Magrini sul Santi-Granci. Il 2 novembre 1866 fu catturato uno dei primi componenti della banda, Fortunato Brunetti, grande amico dello Zingaro. Il suo capo se ne dolse in modo notevole. Delitti particolarmente efferati furono, oltre all’omicidio Radicchi commesso da Antonio Martinelli e Emidio Casagrande nel 1867, la duplice violenza carnale avvenuta negli episodi datati 14 marzo 1867. Va sottolineato che tale comportamento irriguardoso nei confronti delle donne era in netto contrasto con quanto si andava dicendo, per esempio, di Cinicchia e del suo gruppo. |
La petizione del sindaco Domeniconi del 1869 |
La frazione di Salia, come le altre del Buranese, costituì quasi un territorio franco per renitenti, disertori e delinquenti di varia natura. La renitenza al servizio militare assunse dimensioni particolarmente grandi proprio nel territorio eugubino. Al tempo dello Stato Pontificio (e quindi per secoli) non era mai esistito l’obbligo di leva, essendosi i pontefici appoggiati sempre a truppe mercenarie e volontarie.
Nel 1869 su 1833 renitenti alla leva del
circondario di Perugia, ben 599 erano di Gubbio!
Il 27 agosto 1869 il
sindaco di Gubbio
Alessandro Domeniconi
si rivolse direttamente al
Ministro degli Interni
onde sollecitare una maggiore attenzione dello Stato sulla criminalità
che in quel tempo si stava fortemente sviluppando nel territorio
eugubino: Domeniconi si lamentò pure per l’esiguo numero delle truppe impiegate per vigilare su di un territorio di così ampia estensione. Tra i dati che il sindaco eugubino elencò nella sua petizione colpisce quello statistico degli atti criminali compiuti negli ultimi tre anni: “Se dunque fu detto che non sono così frequenti e così atroci i delitti come pure sarebbe a temersi, non per questo può dirsi di esserne privi, come lo addimostra eziandio la statistica giudiziaria che ha già registrati in tre anni 86 ferimenti, 16 omicidi, 60 furti, 25 grassazioni, 11 ribellioni e altri 130 delitti”. Si tratta di dati spaventosamente gravi -anche giudicando con l’ottica del passato-, soprattutto se si considera che allora il comune di Gubbio raggiungeva appena i 21.000 abitanti. Così concluse il sindaco Domeniconi: “Il fatto medesimo è nella certezza che la sua preghiera venga benignamente accolta dalla eccellenza del signor ministro e porta fiducia che qualunque siansi i provvedimenti che si adotteranno a rimuovere i lamentati inconvenienti, non si tarderà soprattutto a stabilire permanentemente in questa città un maggior presidio di truppa e ad aumentare il numero dei carabinieri reali, ciò che sembra di una indeclinabile necessità”. Le operazioni militari intraprese per ordine del Prefetto Maramotti nel mese di novembre del 1869 ebbero una vasta eco anche sulla stampa. Delle conseguenze che ebbero parlerò in seguito. |
Cattura di Zigo e sua confessione |
Facciamo un passo indietro. Il 18 febbraio 1867, dopo numerose rapine commesse dalla banda di Zigo tra Umbertide e Gubbio, Angelo Radicchi assistette casualmente nei pressi del Monte del Vento alla divisione della refurtiva. Tra i banditi riconobbe Antonio Martinelli. Per il Radicchi fu la condanna a morte. Avendo palesato in maniera aperta tale episodio, Angelo Radicchi fu convocato dal pretore di Gubbio per il 31 marzo 1867, ma la voce giunse anche ai componenti della banda. Sentendosi minacciato e in pericolo di vita Angelo rifiutò di recarsi a Gubbio e all’usciere che gli notificò l’avviso disse che era inutile confessare tutto, l’avrebbero ammazzato comunque. Così fu. Quattro giorni dopo Antonio Martinelli e Emidio Casagrande si appostarono nei dintorni di Casacibei, presso il campo del Radicchi, e un quarto d’ora dopo l’Ave Maria lo freddarono con tre fucilate. I latrati d’allarme del cane del Radicchi si rivelarono del tutto inutili. Martinelli e Casagrande però furono visti, riconosciuti e successivamente arrestati. La loro carriera nella banda di Zigo terminò per sempre. Il 14 marzo 1867 erano stati arrestati altri due membri del gruppo di Zigo, Giuseppe Brunetti e Antonio Marteri. Anche sul capobanda la pressione si fece pesante. Dopo l’omicidio Radicchi, Zigo commise reati in sole tre altre occasioni (13 ottobre 1868, luglio e agosto 1869). Ormai si sentiva braccato e forse iniziò a sospettare qualche tradimento. Fattasi insostenibile la situazione di ordine pubblico in tutto il territorio Eugubino, nel 1869 la prefettura decise di passare all’azione, anche per estirpare una volta per tutte il grave fenomeno della renitenza alla leva. Il “Corriere dell’Umbria” del 9 novembre ricorda che in tale circostanza furono catturati o si consegnarono ben 386 renitenti e disertori. Nel corso di tali operazioni Zigo fu tradito e, secondo quanto mi ha raccontato Don Bruno Pauselli, i carabinieri lo poterono catturare mentre si trovava nascosto nel forno della sua casa a Val di Lago. L’arresto avvenne nel novembre del 1869. Il primo di quel mese Zigo risulta ancora in libertà, mentre al 7 novembre è datato il verbale di perquisizione della sua casa. La cattura potrebbe essere avvenuta proprio in quel giorno. Ed è proprio dal mese di novembre che la stampa locale iniziò ad occuparsi frequentemente di quanto stava accadendo nel circondario di Gubbio e comuni limitrofi. In particolare fu la Gazzetta dell’Umbria - organo ufficiale per le inserzioni giudiziarie - a dare conto delle operazioni militari e del processo a carico di Zigo e dei suoi accoliti.
Sante, una volta in galera, si convinse (o
fu convinto), a denunciare tutti i suoi compagni e a raccontare nel
dettaglio tutte le 26 imprese criminose a cui aveva partecipato o in cui
furono coinvolti i suoi amici, delle cui confidenze e racconti si
avvarrà nella sua deposizione fiume. Il fratello Giovanni lo aveva preceduto nella tomba di circa un anno, essendo morto pure lui nel carcere di Perugia il 7 giugno 1870, stroncato da una “bronchite capillare”. Il quotidiano Corriere dell’Umbria tra il 3 giugno 1872 - data di apertura del processo - e il 1° luglio seguente pubblicò per intero il più volte ricordato atto di accusa. Il 5 luglio 1872 la Corte di Assise di Perugia emise la sentenza contro i venti detenuti. Fu assolto solo Ubaldo Procacci. Le pene più gravi furono le seguenti:
Il 6 luglio, invece, fu emessa la sentenza conto due latitanti. Antonio Severini, detto il "fabbro della Branca", fu condannato a 23 anni di lavori forzati - che poi scontò effettivamente -, mentre ad Ercole Magrini, detto lo Zingaro, furono comminati i lavori forzati a vita. Lo Zingaro fu catturato qualche tempo dopo e subì una seconda condanna nel 1881. |
Appoggi e connivenze |
Il fatto che Zigo potesse operare nel territorio eugubino dal 1862 al tardo 1869, cioè per sette lunghi anni, desta più di una perplessità. Sembra quasi impossibile che un bandito possa aver commesso tanti reati in così lungo tempo. Come giustificare questo fatto? Già il 26 luglio 1862 il prefetto Tanari aveva organizzato la perquisizione delle case di Zigo, di Tosti, dell’Angeloni e del Ceccarelli, cioè di quelli che - salvo improbabili casi di omonimia - si riveleranno essere uno dei due capi-banda e tre dei suoi complici in molte azioni criminali. I sospetti, dunque, si indirizzarono, fin dall’inizio, verso i veri colpevoli, ma, chissà perché, le prime indagini non approdarono a nulla. A ciò deve aggiungersi anche lo sconcertante fatto, ricavabile dall’atto di accusa, che l’80% dei reati trovò un responsabile solo dopo la confessione di Zigo! Riassumendo: fin dal 1862 il Santi-Granci e alcuni dei suoi compari furono fortemente sospettati, ma per i sette anni seguenti poterono operare abbastanza tranquillamente anche se qualcuno di loro cadde in potere della giustizia prima del novembre 1869 e morì in carcere. E’ chiaro, comunque, che l’impegno del giovane Regno d’Italia era indirizzato principalmente all’eliminazione del brigantaggio meridionale che, in certi periodi, tenne impegnati i due terzi dell’Esercito.
Dal 1862 al 1869 la zona del Buranese fu
quasi continuamente popolata da oltre cinquecento renitenti alla leva e
disertori - moltissimi eugubini -, e nessuno di loro - per quanto se ne
sa - tradì i componenti della banda di Zigo con la quale, anzi, ebbero
sicuramente modo di venire a contatto, se non per una fattiva
collaborazione nelle rapine, perlomeno in incontri occasionali che non
dovevano essere infrequenti per gli “imboscati” di quelle colline, che
vivevano in un territorio praticamente isolato dalle principali vie di
comunicazione. La strada della Contessa, tanto per dirne una, era stata
abbandonata da decenni ed era ridotta a poco più di una mulattiera. Tra i complici di Zigo, classificabili anche come manutengoli, vi furono certamente Ubaldo Pizzichelli, contadino possidente di Montescosso e Luigi Pierucci. Altri nomi sono ricavabili dai certificati morali rilasciati dal sindaco di Gubbio pro tempore. |
Zigo tra realtà e fantasia: la tradizione popolare |
Anche Zigo, come si è verificato nel caso di altri banditi e briganti, ha goduto presso il popolo contadino di un’aura leggendaria che, per certi aspetti, è rimasta viva fino a pochi anni fa. La tradizione popolare imputa ad una scomunica l’inizio di tutti i guai giudiziari di Zigo. Pare che il Santi-Granci avesse lasciato la moglie legittima per accompagnarsi con un’altra donna abbandonata successivamente. Resta molto difficile confermare questa tradizione, se non altro per il fatto che il fondo giudiziario della curia vescovile di Gubbio è ridotto all’osso anche se alcuni registri, che pure sono giunti miracolosamente fino a noi, sono conservati nel Fondo Giudiziario nella locale sezione di archivio di stato, oggi in deposito a Perugia. E’ noto come pure Zigo, al pari di altri banditi, portasse talismani personali che lo rendevano invulnerabile nella continua lotta contro le forze dell’ordine, perlomeno nei confronti di quei pochi militi che ogni tanto qualcuno decideva di mettere sulle tracce sue e della sua banda. Sante era infatti solito conservare nella giacca un crocefisso e un messale. La gente lo riteneva un buon cristiano ed infatti pare che Zigo andasse a messa tutte le domeniche. Si narra che quando in uno scontro con le forze dell’ordine Zigo perse la giacca e il suo prezioso contenuto, un brigadiere, recuperando i due oggetti, esclamasse: «ecco la fine di Zigo, s’è perso una fortuna». Nel suo rifugio di Pella (vocabolo Pelle o Apelle, nella frazione di Salìa) Sante poteva usufruire di una galleria sotterranea che gli permetteva di raggiungere in tutta sicurezza un luogo esterno e defilato dal quale era solito chiamare i suoi complici con uno zufolo. Pare che Zigo si sia dedicato anche alla fabbricazione di monete false e per questo motivo sembra che nei suoi furti privilegiasse le campane. Secondo altre testimonianze, invece, Zigo fu un bandito come tutti gli altri, un semplice delinquente che consumava pasti luculliani mentre teneva la famiglia a granturco. E’ chiaro che con il materiale oggi disponibile ben difficilmente si potrebbe riuscire a documentare e provare quanto la tradizione popolare tramanda. |
I racconti di Ivo Martinelli |
Non potevo chiudere questa relazione senza accennare, almeno brevemente, ad uno dei tanti racconti che mi fece Ivo Martinelli a proposito di alcuni componenti della banda di Zigo. Uno degli episodi mi sembra particolarmente interessante perché, oltre ad avere alcuni riscontri documentari -non tutti, almeno non per il momento-, vide coinvolti gli antenati di Ivo e di sua moglie. Pietro Martinelli, originario di Pietralunga, attorno al 1849 era diventato proprietario del molino di Morenicchia. Pietro, di agiata condizione, ebbe in seguito Luigi e Rosa. Antonio Martinelli, detto Pione, di famiglia diversa da quella di Pietro, ma anche lui proveniente da Pietralunga - esattamente dal voc. Casaricca - si era innamorato di Rosa. Luigi sapeva che Pione faceva parte della banda di Zigo e quindi voleva che quella relazione avesse termine. Ne parlò alla sorella e questa lo riferì a Pione. La loro relazione non poteva durare perché - dice Rosa ad Antonio - “mio fratello non vuole”. Allora Pione si irritò e cominciò “a bruciare i paiari”. Iniziò quindi a danneggiare le proprietà di Pietro Martinelli, padre di Rosa. Luigi, allora, decise di agire e iniziò a pensare anche all’eliminazione fisica di Pione, ma sapendo che quest’ultimo era praticamente un intoccabile, rinunciò ad agire per timore che la banda di Zigo potesse mettere in atto delle ritorsioni contro la sua famiglia. Luigi era solito macinare a Morenicchia, sul tardi o al mattino presto per sfruttare l’acqua accumulatasi nel bottaccio. Questo molino aveva due macine, divise da un fondello: una dotata di contatore per la tassa sul macinato e l’altra no. Una mattina, mentre Luigi era intento alla macinatura, capitò al molino Giovanni Capaccioni, detto Padella, bisnonno della moglie di Ivo Martinelli. Luigi si rivolse a Padella: “Io so chi sei tu e tu sai chi sono io”; vuole sapere cosa avrebbe fatto la banda di Zigo se lui avesse affrontato ed eliminato Pione. “Compare -gli rispose Padella- mi devi dare qualche giorno, poi ti farò sapere”. Qualche giorno dopo Padella tornò al molino. Prima di parlare, però, volle sapere se Luigi era solo perché le due macine - come detto - erano divise da un fondello. Avuto il via libera Padella disse a Luigi che avrebbe potuto fare tutto quello che voleva, la banda non gli avrebbe dato fastidi. Luigi, allora, cominciò a preparare l’agguato contro Pione. Sa, come sanno tutti, che Antonio Martinelli si recava periodicamente a Caifiordi - Pietralunga - per passare la notte in casa di una donna, sua amica. Alle prime luci dell’alba Antonio era solito ritornare verso la sua residenza. Lungo la strada si trova il voc. Caicivitelli, una volta noto come “casa di Frustone”. E’ proprio lì che Luigi, fucile spianato, attese il passaggio di Pione. Quel giorno, però, Antonio non si vide e l’agguato saltò. Qualche tempo dopo, diminuiti i danneggiamenti alle proprietà di Pietro da parte di Pione, accadde il fattaccio. Luigi, tra una domenica notte ed un lunedì mattina, stava macinando a Morenicchia. Era in compagnia di una cagnetta e dei suoi cuccioli. I cani, mi diceva Ivo Martinelli, non disdegnavano la farina di granturco. Ad un certo momento la cagnolina prese ad abbaiare. Luigi non diede peso alla cosa perché era quasi la norma che qualcuno si trovasse a transitare da quelle parti. I viandanti, alle volte, erano armati. Un cucciolo guaì. Un rumore ... qualcosa era stato gettato in acqua, il tonfo era inequivocabile. Luigi, insospettito, si precipitò fuori del molino, ma quando aprì la porta si trovò di fronte Pione armato di fucile a bacchetta. Allora Luigi si scagliò contro Antonio prendendolo per il bavero della giacchetta e lo strattonò riuscendo a cavargli il fucile dalle spalle.
Pione cadde e Luigi gli fu subito sopra
per assestargli tre violente ginocchiate sul petto. Pione ebbe uno
sbocco di sangue, era inerme e pertanto Luigi decise di fermare il suo
impeto. Dopo aver sparato il fucile di Pione, Luigi sollevò da terra il
malconcio Antonio e lo riaccompagnò a Casaricca. |
I limiti di ricerca che stanno alla base di questo contributo non hanno consentito di seguire la discendenza della famiglia Santi Granci e, in particolare, di Zigo. Dagli atti disponibili risulta che Zigo ebbe un solo figlio maschio - Benedetto, morto in tenera età - e tre femmine. E’ certo che poco prima del 1886 la moglie di Sante, con le sue tre figlie, si trasferì nel comune di Pietralunga. La tradizione popolare di Pietralunga narra di una donna, chiamata Zighetta, -morta poco tempo fa- nipote di Zigo perché figlia di un figlio illegittimo avuto dal bandito. Tutto da provare. D’altra parte è forse un bene che l’alone di mistero che circonda certi personaggi sia destinato a durare e resti inviolato onde evitare che la cruda realtà rovini il fascino, un po’ romantico, tipico di tutti quei briganti la cui biografia si è basata per decenni soltanto sulla tradizione popolare. |
I membri dalla banda di Zigo e dello Zingaro |
1. Amantini Luigi di Giovanni, detenuto 2. Angeloni Ubaldo fu Giovanni Battista detto “Briccioletto”, detenuto 3. Bartolini Agostino fu Ubaldo detto “Ugo”, detenuto 4. Bettelli Luigi di Pietro detto “il Rossetto”, detenuto 5. Brunetti Fortunato di Pasquale detto “Pagliaccio”, detenuto 6. Brunetti Giuseppe di Pasquale, detenuto 7. Burani Domenico di Marco detto “il Matto”, detenuto 8. Burani Domenico di Pietro detto “Melone”, detenuto 9. Calagreti Giuseppe fu Ubaldo detto “Baffino”, detenuto 10. Capoccioni Giovanni Battista, “morto pendente procedura” 11. Capoccioni Giovanni fu Francesco, detto “Padella”, detenuto 12. Casagrande Emidio di genitori ignoti, detenuto 13. Ceccarelli Domenico fu Domenico, detenuto 14. Cecchini Giovanni fu Andrea, detto “Bornia”, detenuto 15. Fecchi Valentino di Sebastiano, detenuto 16. Fondacci Adamo di Ubaldo detto “Baldone”, detenuto 17. Frillici Antonio fu Giovanni detto “il figlio di Focone”, detenuto 18. Letterini Giuseppe fu Angelo, detenuto 19. Magrini Ercole fu Vincenzo detto “Giuseppe o Peppino lo Zingaro ed anche Niccolino”, latitante 20. Marteri Antonio di Giuseppe detto “Torcolo”, detenuto 21. Martinelli Antonio fu Federico detto “Pione”, detenuto 22. Mercati Cristoforo di Luigi, detenuto 23. Ortolani Eugenio di Lodovico, detenuto 24. Ortolani Lodovico fu Francesco detto “Cujella”. In libertà provvisoria 25. Paradisi Pasquale fu Francesco detto “Mignano”, detenuto 26. Passeri Ubaldo fu Tommaso, detenuto 27. Procacci Ubaldo di Giovacchino, detenuto 28. Procaci Giovacchino fu Ubaldo, detenuto 29. Puletti Giuseppe, “morto in pendenza di procedura” 30. Radicchi Tommaso di Simone, latitante 31. Rogari Ubaldo di Francesco detto “Corciano”, detenuto 32. Santi-Granci Giovanni fu Benedetto detto “Zigo”, detenuto 33. Santi-Granci Sante fu Benedetto detto “Zigo”, detenuto 34. Severini Antonio di Giuseppe detto “il fabbro della Branca”, latitante 35. Stocchi Francesco di Domenico, detenuto 36. Tosti - Pandolfini Settimio, “servo ora di perpetua pena” |
Il quadro decessi dei componenti della banda |
Giovanni e Sante non furono gli unici
componenti della banda a morire durante la detenzione.
Altri carte hanno permesso di appurare quanto segue.
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