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   REPUBBLICA ROMANA DEL 1849 A GUBBIO
   
 

1849

I militi e i volontari eugubini

alla difesa di Roma

Relazione di Fabrizio Cece tenuta il 23 febbraio 2008 in occasione
della conferenza "Gubbio e la Repubblica Romana: 150 giorni di libertà"

La situazione a Roma e a Gubbio alla fine del 1848
   Dopo la fuga del papa a Gaeta la situazione in Roma si fece particolarmente confusionaria a causa della moltitudine di gente che si riversò nell’Urbe verso la fine del 1848. Notevoli furono i disordini che si scatenarono, soprattutto in conseguenza dell’afflusso di molti reduci dalla Lombardia e anche da Venezia - tanti di loro transitarono per Gubbio e per la vicina via Flaminia - che ancora resisteva eroicamente agli Austriaci. Abbandonata Roma a se stessa, le conseguenze peggiori ricaddero sugli ecclesiastici; è un fatto che non pochi di loro furono assassinati e barbaramente trucidati. Il 18 dicembre giunse a Roma anche Giuseppe Garibaldi con la sua Legione Italiana, reduce dalle imprese del sud America.
   Il 26 dicembre 1848 fu chiuso il parlamento e il 29 fu pubblicato il proclama di convocazione dell’Assemblea Nazionale per il 5 febbraio dell’anno seguente.


La proclamazione della Repubblica Romana
   L’Assemblea Nazionale avrebbe dovuto assumere pieni poteri e decidere la nuova forma di governo.
   Il 4 febbraio si aprirono le nuove camere e il 9 del mese, con 120 voti favorevoli, 10 contrari e 12 astenuti, venne proclamata la Repubblica Romana col celebre decreto che è stato opportunamente riprodotto nella cartolina-invito per questa giornata.
   Il decreto che istituì la Repubblica Romana fu pubblicato in Gubbio il 12 febbraio 1849. Enormi le feste che furono organizzate per l’occasione. L’apice fu raggiunto con l’innalzamento degli alberi della libertà.
  L’approvazione dell’Assemblea Costituente cadde in Gubbio in un momento molto particolare. Proprio in quei giorni, infatti, si svolse una riunione per cercare di risolvere i problemi che impedivano il regolare funzionamento della Guardia Nazionale.
   Il capitano Fabiani, comandante il battaglione civico di Gubbio, dette incarico al tenente Fabbri di proseguire gli arruolamenti per formare la compagnia mobile. Al 19 febbraio, però, risultavano arruolati solo 35 volontari; tra di loro, oltre al comandante Fabbri, vi erano anche numerosi eugubini che avevano preso parte alla prima guerra d’indipendenza. Questo modesto reparto aveva la propria caserma in alcuni locali del convento di San Francesco.


Il mancato arresto del vescovo Pecci
   Il primo marzo 1849 monsignor Giuseppe Pecci, vescovo di Gubbio, scrisse una lettera pastorale per difendere con energia il minacciato sequestro dei beni ecclesiastici.
   Questa pastorale, unita alla dichiarazione resa dal Pecci il primo aprile al commissario Guidi - incaricato dal presidente della provincia di Pesaro di procedere all’incameramento dei beni ecclesiastici - giunse anche a Roma e provocò l’immediata richiesta di arresto per l’alto prelato eugubino. Dell’ordine di cattura furono incaricati la guardia repubblicana di Perugia e un altro reparto proveniente da Pesaro. Il vescovo di Perugia, cioè il futuro Leone XIII - quello della Rerum Novarum, tanto per intenderci - mise sull’avviso la curia eugubina e monsignor Pecci, dopo una certa resistenza, il 13 aprile 1849 fu convinto a nascondersi presso la canonica, mentre in pari tempo si fece diffondere la notizia della sua fuga. Calmatesi le acque, il vescovo poté tornare in curia il 29 aprile seguente.


Militi e Volontari di Gubbio alla difesa di Roma
   Mentre nello Stato Pontificio si verificavano i detti fatti, nel nord Italia riprese a rumoreggiare il fermento dell’indipendenza. Carlo Alberto, spinto in questo dai suoi parlamentari, denunciò unilateralmente l’armistizio di Milano e si preparò al nuovo conflitto contro l’Austria.

La mobilitazione
   Il nuovo atteggiamento dei Piemontesi non poteva certo essere ignorato a Roma. Incoraggiato dai nuovi avvenimenti, il governo repubblicano indisse la mobilitazione generale. Tutti i cittadini maschi compresi tra i 18 e i 55 anni avrebbero dovuto far parte della Guardia Nazionale distinta, a sua volta, in mobile (con i militi compresi tra i 18 e i 30 anni) e “stazionale”.
   La commissione di guerra, composta da cinque membri, fu posta agli ordini del napoletano Carlo Pisacane.
   Mentre lo stato repubblicano era intento a questa frenetica attività militare, giunse come un fulmine a ciel sereno la notizia dalla irrimediabile sconfitta subita dai Piemontesi a Novara. Il primo aprile cadde anche Brescia che per dieci giorni aveva resistito all’esercito austriaco.
   Genova, sobillata dai repubblicani, si ribellò ai Savoia, ma il generale La Marmora, con una breve ma energica operazione militare, riporto la “Superba” sotto il dominio sabaudo.
   La notizia della sconfitta di Novara creò grosse preoccupazioni a Roma dove fu prontamente organizzata la formazione di 12 battaglioni di Guardia Nazionale, un battaglione di finanzieri e un battaglione di universitari. Si procedette inoltre all’ulteriore rinforzo dell’esercito regolare.
   A Gubbio il primo corpo mobilizzato fu la ricordata compagnia del tenente Fabbri.
Il 14 marzo il tenente Oddi del 3° reggimento Leggeri, incaricato dell’arruolamento delle truppe per la difesa della Repubblica Romana, chiese ed ottenne dal comune di Gubbio lo stanziamento di 52 scudi per gratificare in qualche modo i 26 volontari da lui radunati tra i quali Eugenio Bruni e Adamo Tinti di cui dirò più avanti.
   Richiamati i carabinieri ai corpi mobilitati, la sicurezza pubblica fu affidata alla Guardia Nazionale la cui organizzazione, però, seguitò ad incontrare ostacoli insormontabile soprattutto nella compilazione dei ruoli dei cittadini residenti in campagna.
   La nuova situazione che si stava profilando in Italia, l’inutilità della troppa burocrazia, la necessità di attribuire poteri decisionali a poche persone, determinò lo scioglimento del comitato esecutivo della Repubblica Romana e l’attribuzione dei pieni poteri ad un triumvirato formato da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi.

La difesa di Roma
   Già il 18 febbraio Pio IX aveva chiesto agli stati europei cattolici di attivarsi per ristabilirlo nel suo ruolo di legittimo sovrano dello Stato Pontificio. Il 20 aprile, nel concistoro segreto di Gaeta, il papa invocò nuovamente l’aiuto delle potenze cattoliche. All’invito aderirono la repubblica Francese, la Spagna, l’Austria e il Regno di Napoli.
   Il quadro politico italiano aveva frattanto registrato ( 9 aprile) il ritorno dei Lorena sul trono granducale di Toscana. Resistevano soltanto Roma e Venezia.
   La consistenza e lo schieramento delle truppe preposte alla difesa dell’Urbe è ricordato da Carlo Pisacane:

                                        1
a brigata, generale Garibaldi

Legione italiana, 2 battaglioni

1.200

 

Battaglioni dei reduci (8° di linea)

500

 

Battaglione universitario

400

 

Finanzieri

300

 

Legione degli emigrati (11° di linea)

300

2.700


                                        2
a brigata, colonnello Masi

Civica mobile, 2 battaglioni

1.000

 

6° di linea, 2 battaglioni

1.100

2.100

 

    3a brigata cavalleria, colonnello Savini

Quadri del 1° e 2° reggimento dragoni

400

400

                               
                                      4
a brigata, colonnello Bartolomeo Galletti

1° di linea, 1 battaglione

600

 

Legione romana, 2 battaglioni (10° di linea)

1.200

1.800

 

Corpo dei carabinieri comandato dal generale Giuseppe Galletti

 

600

 

600

Truppa del genio

500

500

Bersaglieri lombardi

600

600

 

 

 

TOTALE

 

8.700

   Tra il 24 e il 25 aprile il generale Nicolas Oudinot sbarcò nel porto militare di Civitavecchia con circa 7.000 uomini. Il presidente della repubblica francese, Luigi Bonaparte (il futuro Napoleone III), con questa iniziativa volle ingraziarsi l’elettorato cattolico francese e in pari tempo impedire all’Austria di allargare ulteriormente la sua zona d’influenza influenza in Italia.
   Al generale Oudinot la presa di Roma apparve subito come una passeggiata. Si narra che il generale francese, a chi gli diceva che era certa la resistenza di Roma, era solito rispondere: “Gli Italiani non si battono“.
   Al Triumvirato la gravità della situazione apparve allora in tutta la sua evidenza e la Repubblica fu costretta ad emettere altri proclami per indurre i volontari Italiani ad arruolarsi tra le sue fila.
   Il 28 aprile, saputo della partenza dei Francesi da Civitavecchia per serrare sotto Roma, il Triumvirato decretò lo stato d’assedio, organizzò la difesa popolare dei rioni e assicurò la protezione dei cittadini francesi presenti in Roma.
   Anche gli eugubini raccolsero l’invito romano. Luigi Lucarelli ricorda nel suo diario che a fine aprile partirono 26 volontari, 18 per Roma e 8 per Bologna.

Gli scontri iniziali
   Il 30 aprile i Francesi ritennero di poter attaccare Roma dal saliente Vaticano, verso porta Cavalleggeri e porta San Pancrazio, ma senza una adeguata copertura di artiglieria di cui, anzi, erano poco forniti.
   Alla difesa della parte alta di Roma, però, era stato posto in tutta fretta Giuseppe Garibaldi. I Francesi attaccarono il saliente verso porta Pertusa accorgendosi però troppo tardi che il varco era stato murato. Piegarono allora verso porta Cavalleggeri. Un’altra colonna venne fatta avanzare verso porta Angelica. Anche qui comunque i difensori fecero buona guardia.
   Dopo circa mezz’ora di combattimento Garibaldi decise di contrattaccare da Villa Corsini e da Villa Pamphili che, con lungimiranza, aveva fatto occupare poche ore prima. In testa alla colonna fu posto il battaglione studenti subito sostenuto dalla Legione Italiana. Lo scontro fu aspro e gli italiani dovettero retrocedere.
Ottenuto un battaglione di rinforzi dal Galletti, Garibaldi si pose alla testa del contingente (circa 2.000 uomini) e comandò la carica alla baionetta. Vinta la tenace resistenza dei francesi, il generale restò padrone del campo facendo molti prigionieri.
   Nei giorni seguenti, tra i Triumviri e Ferdinand De Lesseps, diplomatico Francese, fu raggiunta la tregua di un mese.
   Oudinot mise pertanto Roma sotto assedio. Tergiversando in inutili trattative (soprattutto per i Repubblicani che, per volontà di Mazzini, continuarono a dare precedenza all’elemento politico piuttosto che a quello militare) i francesi riuscirono a ricevere numerosi rinforzi (fino a 20.000 uomini) e, soprattutto, un grosso parco di artiglieria.
   Vistisi accerchiati i Triumviri incitarono vieppiù gli Italiani a recarsi a Roma per difendere la Repubblica. I proclami di Mazzini e i bollettini di Garibaldi giungevano numerosi anche a Gubbio come eco di epopea grandiosa.
   Il 4 maggio 1.500 volontari transitarono per Scheggia.
   Il 6 maggio sbarcò a Fiumicino un corpo di Spagnoli.
Qualche giorno dopo altri 20 eugubini si misero in marcia per la capitale.
Poco tempo dopo la sconfitta francese, furono le truppe borboniche ad attaccare Roma. Garibaldi affrontò i Napoletani a Palestrina (9 maggio) e a Velletri (19 maggio) mettendoli in fuga. Il generale andò al loro inseguimento ma, ancora una volta, venne fermato dagl’ordini superiori.
   Il 25 maggio, in seguito ai nuovi successi di Palestrina e Velletri, altri 4 volontari partirono da Gubbio per recarsi in Roma. Tra di essi Luigi Carocci e Giuseppe Andreoli: quest’ultimo combatterà nel battaglione universitario.
   Non volendo offendere oltre misura l’orgoglio francese e sperando sempre nei repubblicani transalpini che ancora protestavano contro questa spedizione liberticida, Mazzini fece liberare subito i prigionieri catturati da Garibaldi.

Gli Austriaci invadono l’Italia centrale
   L’8 maggio 1849 gli Austriaci del maresciallo Wimpffen attaccarono Bologna con 7.000 uomini e 13 cannoni. Il 16 seguente, dopo 8 giorni di combattimenti e dopo aver rinforzato il proprio contingente fino a 20.000 unità, gli imperiali riuscirono ad entrare nella città emiliana.
   Gli austriaci proseguirono per Ancona. Un’altro corpo austriaco, intanto, sostava nella zona di Arezzo.

La colonna Pianciani
  Un gruppo di circa 1.000 volontari reduce da Bologna e comandato dal colonnello Luigi Pianciani di Spoleto si barricò nei pressi del passo del Furlo, tenendo in scacco gli austriaci provenienti da nord e costringendo quelli provenienti da Arezzo a percorrere lo stradale Perugia-Foligno per penetrare nelle Marche e raggiungere Ancona.
  Gubbio si venne così a trovare in una strana situazione. Seppur circondata sia da nord che sul confine verso Perugia, la città poteva continuare ad amministrarsi in piena libertà.
  Sotto la pressione degli Austriaci la colonna Pianciani dovette ben presto ripiegare.
  Il 15 giugno, provenienti da Pietralunga, giunsero a Gubbio il commissario straordinario Froncini, il segretario della provincia e cinquanta uomini della colonna Pianciani che, reduce da Urbino - oramai in mano ai Tedeschi -, si erano portato dietro come prigionieri alcuni carabinieri della compagnia urbinate.
   I commissari al seguito delle truppe del Pianciani, addetti al sostentamento e alla difesa del corpo, furono costretti a rivolgersi ai vari comuni della zona per ottenere vettovaglie, vestiario e denaro. Qualcuno non ne fu affatto contento anche perché si trattava di prestiti forzosi ai quali era ben difficile opporsi.
  Il 16 giugno giunse a Gubbio anche una seconda colonna forte di 6-700 militi comandata dall’inglese Ugo Forbes. Chiesero subito alloggio per gli ufficiali e 80 paia di scarpe.
   Tra il 18 e il 19 le truppe partirono divise in due colonne, una per Gualdo Tadino e l’altra per Perugia in quel momento libera da truppe imperiali. Per quest’ultima località il comune di Gubbio dovette approntare carri, buoi e una vettura per il trasporto degli uomini e dei materiali.
   Il 19 furono inviati a Perugia anche i 13 carabinieri catturati ad Urbino sotto la scorta di 15 svizzeri e di 15 soldati della Guardia Civica di Gubbio. Il 20 giugno mattina partirono gli ultimi soldati svizzeri con il commissario Froncini e gli altri esponenti dell’amministrazione repubblicana.

Gli Austriaci a Gubbio.
   Il 20 giugno a sera, 700 Austriaci entrarono in Gubbio: anche loro chiesero 100 paia di scarpe! Una parte della truppa trovò ospitalità presso i locali del convento di San Francesco, il resto fu albergata nel complesso di San Pietro. Gli ufficiali vennero accolti dalla famiglie più in vista della città.
   Due giorni dopo una parte delle truppe proseguì verso Branca per Foligno e l’altra aliquota si spostò in direzione di Perugia.

La battaglia finale e la resa di Roma
   Fallite le trattative tra Mazzini e il plenipotenziario di Oudinot, De Lesseps, il 3 giugno vi fu un nuovo attacco dei Francesi. Ancora una volta toccò a Garibaldi chiudere la falla. I combattimenti principali si svolsero attorno a Villa Corsini, chiave del sistema difensivo romano.
   Per tre volte la villa fu ripresa e persa. In questa sfortunata azione morirono Enrico Dandolo, Angelo Masina, Francesco Daverio. Goffredo Mameli, ferito, morì poco dopo.
   La situazione nella capitale si fece di giorno in giorno sempre più complicata. I soldati si godevano come meglio potevano gli ultimi giorni della Repubblica.
   I Francesi, infatti, ricevettero numerosi rinforzi via mare e l’insurrezione parigina del 13 giugno fu ben presto soffocata da Luigi Napoleone e per i romani crollò ogni speranza di uscire incolumi dall’assedio.
   Il 21 e 22 giugno i Francesi attaccarono ancora sul Gianicolo.
  Il 29 giugno scattò l’attacco finale francese con un furioso bombardamento dell’Urbe seguito dall’avanzata concentrata di due colonne.: la prima su Villa Spada, l’altra da casa Barberini a Villa Spada.
  Il 30 giugno i Francesi assaltarono le trincee di San Pancrazio, difese dal reggimento Rosselli, facendo numerose vittime tra gli italiani.
   I Francesi ebbero praticamente partita vinta. Fallite le trattative con il municipio romano per l’ingresso delle truppe, Oudinot diede l’ordine dell’assalto finale. Il primo luglio Mazzini convocò i capi militari per decidere il da farsi.
Fu allora approvata la celebre dichiarazione:
  “L’Assemblea Costituente romana cessa da una difesa divenuta impossibile e sta al suo posto”.
   Il giorno dopo, come canto del cigno, l’Assemblea promulgò la costituzione.
   L’Assemblea, inoltre, concesse a Rosselli e a Garibaldi i pieni poteri nei territori teoricamente ancora dipendenti dalla Repubblica.
  Il generale Oudinot, padrone di Roma, emanò vari decreti per cercare di normalizzare la situazione nella città Eterna. Vennero abbattute tutte le insegne repubblicane, chiusi i giornali, rimpatriati a forza le migliaia di persone che si erano ivi recate ai tempi della repubblica.
   Anche gli eugubini tornarono a casa. Alcuni di essi, ammalati, furono ricoverati nel civico ospedale e lì si trovarono fianco a fianco con alcuni commilitoni austriaci.
   Da Perugia a Gubbio transitarono centinaia di reduci, disarmati, a cui il comune diede una piccola sovvenzione in viveri e in mezzi di trasporto. Questa processione durò circa due mesi.

Gli eugubini alla difesa di Roma
   Con le conoscenze attualmente disponibili resta ancora difficile individuare esattamente a quali corpi vennero assegnati i militi e i volontari eugubini.
   Sicuramente furono a Roma due nuclei: uno nelle truppe regolari (battaglione di Pesaro) e l’altro nei volontari.
   In particolare ricordo che il 5 maggio partì da Gubbio il gruppo di volontari guidato dal sottotenente Angelico Fabbri: furono in sedici a recarsi a Perugia con un carro. I volontari, in considerazione del fatto che avrebbero potuto trovarsi isolati da Gubbio, ottennero per intero la prevista sovvenzione comunale. Il 24 maggio partirono altri quattro volontari.
   Il generale Avezzana, ministro della guerra della Repubblica Romana, con effetto immediato dal 28 maggio, nominò Angelico Fabbri capitano nel Battaglione Nazionale Mobilizzato Provinciale.
   L’incarico fu controfirmato da Garibaldi.
  E’ molto probabile che questi ultimi fossero assegnati ai vari corpi franchi e qualcuno di loro finì sicuramente per indossare la mitica camicia rossa (che, per ragioni organizzative, si diffuse solo a partire dal 28 giugno).
  Oltre all’Andreoli e al Fabbri ricordo Nicola Braura e Domenico Capobianchi che militarono agli ordini del generale Giuseppe Galletti.
  Nei combattimenti di fine giugno rimasero uccisi gli eugubini Luigi Giovagnoli e Nazareno Mantovani.

Eugenio Bruni e Adamo Tinti con Garibaldi da Roma a Venezia
   Entrati i Francesi in Roma, Garibaldi si recò in piazza San Giovanni con 4.700 volontari e iniziò la celebre ritirata verso nord.
   Durante il tragitto numerosi furono i casi di abbandono e diserzione (ammesso che questo termine avesse un senso nella particolare e difficilissima situazione in cui per più giorni manovrarono i reduci repubblicani). Le fila dei seguaci del generale si assottigliarono in poco tempo.
   Attraversata tutta l’Italia centrale tra enormi difficoltà, ridotte all’osso le sue milizie, inseguito in varie fasi da circa 86.000 uomini tra Austriaci, Francesi, Spagnoli, Toscani e Napoletani, sfiduciato dal mancato appoggio e dalla mancata insurrezione delle città attraversate, Garibaldi raggiunse San Marino il 31 luglio. Aveva ancora con se circa 1.400 uomini.
   Sfuggito alla feroce caccia degli Austriaci, Garibaldi trattò con la Repubblica del Titano le garanzie per chi avrebbe accettato di consegnare le armi. Il comandante della Legione Italiana decise quindi di sciogliere quanto restava delle sue truppe e di tentare una sortita dal mare verso Venezia.
   Il 2 agosto, con gli ultimi 250 fedelissimi, raggiunse Cesenatico e si imbarcò con i suoi uomini su dodici bragozzi e una tartana.
   Il 3 agosto, sulla rotta per Venezia, vennero scoperti dall’imperial-regio brigantino Oreste. Sospinti verso Goro, i legni garibaldini cominciarono ad arrendersi. Otto bragozzi furono catturati; due si incagliarono – e su uno di questi era Garibaldi con Anita – e tre riuscirono a raggiungere la riva. Truppe Croate a terra inseguirono a catturarono alcuni dei fuggiaschi. Garibaldi si salvò, mentre Anita, come noto, morì nelle valli di Comacchio.
   Gli Austriaci radunarono i prigionieri e li imbarcarono sull’Oreste per condurli parte a Porto Tolle e, in maggior numero, nel forte di Pola.
   Iniziò così la caccia agli scampati.
  Per i collaboratori era prevista la fucilazione. Dei volontari momentaneamente sfuggiti alla cattura furono in seguito catturati e fucilati Ciceruacchio, i figli Lorenzo (tredicenne) e Luigi, il padre barnabita Ugo Bassi ed altri.
   Tra i 162 prigionieri garibaldini presi dagli austriaci vi furono anche alcuni umbri e tra loro - come già detto - gli eugubini Eugenio Bruni (aveva allora 16 anni; durante la Prima guerra d’Indipendenza era stato tamburino nei volontari eugubini) e Adamo Tinti, diciassettenne.
Dalla documentazione da me rintracciata, dalle ultime pubblicazioni edite segnalatemi da Marco e Basilio Tinti, e dai suggerimenti fornitimi dal prof. Stefano Orazi, presidente della sezione di Pesaro-Urbino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, risulta che Bruni e Tinti, dopo la cattura, furono portati in catene da Porto Tolle a Pola; poi, su ordine del generale Radetzky, condotti a Caorle e a Mantova, luogo finale di prigionia per i cittadini pontifici che avevano militato nella “banda” di Garibaldi. Secondo le direttive di Radetzky i “caporioni” (cioè i comandanti) avrebbero dovuto subire dure pene corporali, mentre allo stato attuale delle ricerche si ignora la sorte precisa toccata ai soldati di truppa.
   Fatto sta che dopo qualche tempo ritroviamo sia Tinti sia Bruni a Gubbio.


Per concludere
   L’11 agosto 1849 la pressione congiunta degli eserciti austriaco e russo mise fine alla rivoluzione ungherese. Venezia, che già il 2 aprile aveva proclamato la resistenza ad oltranza, continuò a battersi con il sostegno diretto e indiretto di molti patrioti e di vari comuni italiani. Il 23 agosto, ricevuto il potere da Daniele Manin, la municipalità della città iniziò le trattative di resa che si conclusero il 26 agosto.
   I primi anni cinquanta furono durissimi per gli eugubini, sia in campo patriottico, sia in quello socio economico. La “normalizzazione” guidata da mons. Pecci, la cronica mancanza di lavoro, una tremenda carestia e la tragica epidemia di colera del 1855, stroncarono qualsiasi ideale di libertà e costrinsero alcuni patrioti eugubini a venire a più miti consigli e, addirittura, ad arruolarsi nelle milizie pontificie.
   Non tutti, però, cedettero alle tragiche circostanze. Fu proprio un pugno di tenaci propugnatori dell’Unità italiana, soprattutto professionisti e quindi economicamente avvantaggiati, a tenere viva anche a Gubbio la fiamma degli ideali di indipendenza e di libertà destinati a realizzarsi di lì a pochi anni.
 

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