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REPUBBLICA ROMANA DEL 1849 A GUBBIO | ||
1849
I militi e i volontari eugubini
alla difesa di Roma
Relazione di
Fabrizio Cece tenuta il 23 febbraio 2008 in occasione
della conferenza
"Gubbio e la Repubblica Romana: 150 giorni di libertà"
La situazione a Roma e a Gubbio alla fine del 1848
Dopo la fuga del papa a Gaeta la situazione in Roma si fece
particolarmente confusionaria a causa della moltitudine di gente che si riversò
nell’Urbe verso la fine del 1848. Notevoli furono i disordini che si
scatenarono, soprattutto in conseguenza dell’afflusso di molti reduci dalla
Lombardia e anche da Venezia - tanti di loro transitarono per Gubbio e per la
vicina via Flaminia - che ancora resisteva
eroicamente
agli Austriaci. Abbandonata Roma a se stessa, le conseguenze peggiori ricaddero
sugli ecclesiastici; è un fatto che non pochi di loro furono assassinati e
barbaramente trucidati. Il 18 dicembre giunse a Roma anche Giuseppe Garibaldi
con la sua Legione Italiana, reduce dalle imprese del sud America.
Il 26 dicembre 1848 fu chiuso il parlamento e il 29 fu pubblicato
il proclama di convocazione dell’Assemblea Nazionale per il 5 febbraio dell’anno
seguente.
La proclamazione della Repubblica Romana
L’Assemblea Nazionale avrebbe dovuto assumere pieni poteri e
decidere la nuova forma di governo.
Il 4 febbraio si aprirono le nuove camere e il 9 del mese,
con 120 voti favorevoli,
10 contrari e 12 astenuti, venne proclamata la Repubblica Romana col
celebre decreto che è stato opportunamente riprodotto nella cartolina-invito per
questa giornata.
Il decreto che istituì la Repubblica Romana fu pubblicato in Gubbio
il 12 febbraio 1849. Enormi le feste che furono organizzate per l’occasione.
L’apice fu raggiunto con l’innalzamento degli alberi della libertà.
L’approvazione dell’Assemblea Costituente cadde in Gubbio in un momento
molto particolare. Proprio in quei giorni, infatti, si svolse una riunione per
cercare di risolvere i problemi che impedivano il regolare funzionamento della
Guardia Nazionale.
Il capitano Fabiani, comandante il battaglione civico di Gubbio,
dette incarico al tenente Fabbri di proseguire gli arruolamenti per formare la
compagnia mobile. Al 19 febbraio, però, risultavano arruolati solo 35 volontari;
tra di loro, oltre al comandante Fabbri, vi erano anche numerosi eugubini che
avevano preso parte alla prima guerra d’indipendenza. Questo modesto reparto
aveva la propria caserma in alcuni locali del convento di San Francesco.
Il mancato arresto del vescovo Pecci
Il primo marzo 1849 monsignor
Giuseppe Pecci, vescovo di Gubbio, scrisse
una lettera pastorale per difendere con energia il minacciato sequestro dei beni
ecclesiastici.
Questa pastorale, unita alla dichiarazione resa dal Pecci il primo
aprile al commissario Guidi - incaricato dal presidente della provincia di
Pesaro di procedere all’incameramento dei beni ecclesiastici - giunse anche a
Roma e provocò l’immediata richiesta di arresto per l’alto prelato eugubino.
Dell’ordine di cattura furono incaricati la guardia repubblicana di Perugia e un
altro reparto proveniente da Pesaro. Il vescovo di Perugia, cioè il futuro Leone
XIII - quello della Rerum Novarum, tanto per intenderci - mise sull’avviso la
curia eugubina e monsignor Pecci, dopo una certa resistenza, il 13 aprile 1849
fu convinto a nascondersi presso la canonica, mentre in pari tempo si fece
diffondere la notizia della sua fuga. Calmatesi le acque, il vescovo poté
tornare in curia il 29 aprile seguente.
Militi e Volontari di Gubbio alla difesa di Roma
Mentre nello Stato Pontificio si verificavano i detti fatti, nel
nord Italia riprese a rumoreggiare il fermento dell’indipendenza. Carlo Alberto,
spinto in questo dai suoi parlamentari, denunciò unilateralmente l’armistizio di
Milano e si preparò al nuovo conflitto contro l’Austria.
La mobilitazione
Il nuovo atteggiamento dei Piemontesi non poteva certo essere
ignorato a Roma. Incoraggiato dai nuovi avvenimenti, il governo repubblicano
indisse la mobilitazione generale. Tutti i cittadini maschi compresi tra i 18 e
i 55 anni avrebbero dovuto far parte della Guardia Nazionale distinta, a sua
volta, in mobile (con i militi compresi tra i 18 e i 30 anni) e “stazionale”.
La commissione di guerra, composta da cinque membri, fu posta agli
ordini del napoletano Carlo Pisacane.
Mentre lo stato repubblicano era intento a questa frenetica
attività militare, giunse come un fulmine a ciel sereno la notizia dalla
irrimediabile sconfitta subita dai Piemontesi a Novara. Il primo aprile cadde
anche Brescia che per dieci giorni aveva resistito all’esercito austriaco.
Genova, sobillata dai repubblicani, si ribellò ai Savoia, ma il
generale La Marmora, con una breve ma energica operazione militare, riporto la
“Superba” sotto il dominio sabaudo.
La notizia della sconfitta di Novara creò grosse preoccupazioni a
Roma dove fu prontamente organizzata la formazione di 12 battaglioni di Guardia
Nazionale, un battaglione di finanzieri e un battaglione di universitari. Si
procedette inoltre all’ulteriore rinforzo dell’esercito regolare.
A Gubbio il primo corpo mobilizzato fu la ricordata compagnia del
tenente Fabbri.
Il 14 marzo il tenente Oddi del 3° reggimento Leggeri, incaricato
dell’arruolamento delle truppe per la difesa della Repubblica Romana, chiese ed
ottenne dal comune di Gubbio lo stanziamento di 52 scudi per gratificare in
qualche modo i 26 volontari da lui radunati tra i quali Eugenio Bruni e Adamo
Tinti di cui dirò più avanti.
Richiamati i carabinieri ai corpi mobilitati, la sicurezza pubblica
fu affidata alla Guardia Nazionale la cui organizzazione, però, seguitò ad
incontrare ostacoli insormontabile soprattutto nella compilazione dei ruoli dei
cittadini residenti in campagna.
La nuova situazione che si stava profilando in Italia, l’inutilità
della troppa burocrazia, la necessità di attribuire poteri decisionali a poche
persone, determinò lo scioglimento del comitato esecutivo della Repubblica
Romana e l’attribuzione dei pieni poteri ad un triumvirato formato da Carlo
Armellini, Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi.
La difesa di Roma
Già il 18 febbraio Pio IX aveva chiesto agli stati europei
cattolici di attivarsi per ristabilirlo nel suo ruolo di legittimo sovrano dello
Stato Pontificio. Il 20 aprile, nel concistoro segreto di Gaeta, il papa invocò
nuovamente l’aiuto delle potenze cattoliche. All’invito aderirono la repubblica
Francese, la Spagna, l’Austria e il Regno di Napoli.
Il quadro politico italiano aveva frattanto registrato ( 9 aprile)
il ritorno dei Lorena sul trono granducale di Toscana. Resistevano soltanto Roma
e Venezia.
La consistenza e lo schieramento delle truppe preposte alla difesa
dell’Urbe è ricordato da Carlo Pisacane:
1a
brigata, generale Garibaldi
Legione italiana, 2 battaglioni |
1.200 |
|
Battaglioni dei reduci (8° di linea) |
500 |
|
Battaglione universitario |
400 |
|
Finanzieri |
300 |
|
Legione degli emigrati (11° di linea) |
300 |
2.700 |
2a
brigata, colonnello Masi
Civica mobile, 2 battaglioni |
1.000 |
|
6° di linea, 2 battaglioni |
1.100 |
2.100 |
3a brigata cavalleria, colonnello Savini
Quadri del 1° e 2° reggimento dragoni |
400 |
400 |
4a
brigata, colonnello Bartolomeo Galletti
1° di linea, 1 battaglione |
600 |
|
Legione romana, 2 battaglioni (10° di linea) |
1.200 |
1.800 |
Corpo dei carabinieri comandato dal generale Giuseppe Galletti |
600 |
600 |
Truppa del genio |
500 |
500 |
Bersaglieri lombardi |
600 |
600 |
|
TOTALE |
8.700 |
Tra il 24 e il 25 aprile il generale Nicolas Oudinot sbarcò nel
porto militare di Civitavecchia con circa 7.000 uomini. Il presidente della
repubblica francese, Luigi Bonaparte (il futuro Napoleone III), con questa
iniziativa volle ingraziarsi l’elettorato cattolico francese e in pari tempo
impedire all’Austria di allargare ulteriormente la sua zona d’influenza
influenza in Italia.
Al generale Oudinot la presa di Roma apparve subito come una
passeggiata. Si narra che il generale francese, a chi gli diceva che era certa
la resistenza di Roma, era solito rispondere: “Gli Italiani non si battono“.
Al Triumvirato la gravità della situazione apparve allora in tutta
la sua evidenza e la Repubblica fu costretta ad emettere altri proclami per
indurre i volontari Italiani ad arruolarsi tra le sue fila.
Il 28 aprile, saputo della partenza dei Francesi da Civitavecchia
per serrare sotto Roma, il Triumvirato decretò lo stato d’assedio, organizzò la
difesa popolare dei rioni e assicurò la protezione dei cittadini francesi
presenti in Roma.
Anche gli eugubini raccolsero l’invito romano. Luigi Lucarelli
ricorda nel suo diario che a fine aprile partirono 26 volontari, 18 per Roma e 8
per Bologna.
Gli scontri iniziali
Il 30 aprile i Francesi ritennero di poter attaccare Roma dal
saliente Vaticano, verso porta Cavalleggeri e porta San Pancrazio, ma senza una
adeguata copertura di artiglieria di cui, anzi, erano poco forniti.
Alla difesa della parte alta di Roma, però, era stato posto in
tutta fretta Giuseppe Garibaldi. I Francesi attaccarono il saliente verso porta
Pertusa accorgendosi però troppo tardi che il varco era stato murato. Piegarono
allora verso porta Cavalleggeri. Un’altra colonna venne fatta avanzare verso
porta Angelica. Anche qui comunque i difensori fecero buona guardia.
Dopo circa mezz’ora di combattimento Garibaldi decise di
contrattaccare da Villa Corsini e da Villa Pamphili che, con lungimiranza, aveva
fatto occupare poche ore prima. In testa alla colonna fu posto il battaglione
studenti subito sostenuto dalla Legione Italiana. Lo scontro fu aspro e gli
italiani dovettero retrocedere.
Ottenuto un battaglione di rinforzi dal Galletti, Garibaldi si pose alla testa
del contingente (circa 2.000 uomini) e comandò la carica alla baionetta. Vinta
la tenace resistenza dei francesi, il generale restò padrone del campo facendo
molti prigionieri.
Nei giorni seguenti, tra i Triumviri e Ferdinand De Lesseps,
diplomatico Francese, fu raggiunta la tregua di un mese.
Oudinot mise pertanto Roma sotto assedio. Tergiversando in inutili
trattative (soprattutto per i Repubblicani che, per volontà di Mazzini,
continuarono a dare precedenza all’elemento politico piuttosto che a quello
militare) i francesi riuscirono a ricevere numerosi rinforzi (fino a 20.000
uomini) e, soprattutto, un grosso parco di artiglieria.
Vistisi accerchiati i Triumviri incitarono vieppiù gli Italiani a
recarsi a Roma per difendere la Repubblica. I proclami di Mazzini e i bollettini
di Garibaldi giungevano numerosi anche a Gubbio come eco di epopea grandiosa.
Il 4 maggio 1.500 volontari transitarono per Scheggia.
Il 6 maggio sbarcò a Fiumicino un corpo di Spagnoli.
Qualche giorno dopo altri 20 eugubini si misero in marcia per la capitale.
Poco tempo dopo la sconfitta francese, furono le truppe borboniche ad attaccare
Roma. Garibaldi affrontò i Napoletani a Palestrina (9 maggio) e a Velletri (19
maggio) mettendoli in fuga. Il generale andò al loro inseguimento ma, ancora una
volta, venne fermato dagl’ordini superiori.
Il 25 maggio, in seguito ai nuovi successi di Palestrina e Velletri,
altri 4 volontari partirono da Gubbio per recarsi in Roma. Tra di essi Luigi
Carocci e Giuseppe Andreoli: quest’ultimo combatterà nel battaglione
universitario.
Non volendo offendere oltre misura l’orgoglio francese e sperando
sempre nei repubblicani transalpini che ancora protestavano contro questa
spedizione liberticida, Mazzini fece liberare subito i prigionieri catturati da
Garibaldi.
Gli Austriaci invadono l’Italia centrale
L’8 maggio 1849 gli Austriaci del maresciallo Wimpffen attaccarono
Bologna con 7.000 uomini e 13 cannoni. Il 16 seguente, dopo 8 giorni di
combattimenti e dopo aver rinforzato il proprio contingente fino a 20.000 unità,
gli imperiali riuscirono ad entrare nella città emiliana.
Gli austriaci proseguirono per Ancona. Un’altro corpo austriaco,
intanto, sostava nella zona di Arezzo.
La colonna Pianciani
Un gruppo di circa 1.000 volontari reduce da Bologna e comandato dal
colonnello Luigi Pianciani di Spoleto si barricò nei pressi del passo del Furlo,
tenendo in scacco gli austriaci provenienti da nord e costringendo quelli
provenienti da Arezzo a percorrere lo stradale Perugia-Foligno per penetrare
nelle Marche e raggiungere Ancona.
Gubbio si venne così a trovare in una strana situazione. Seppur
circondata sia da nord che sul confine verso Perugia, la città poteva continuare
ad amministrarsi in piena libertà.
Sotto la pressione degli Austriaci la colonna Pianciani dovette ben
presto ripiegare.
Il 15 giugno, provenienti da Pietralunga, giunsero a Gubbio il
commissario straordinario Froncini, il segretario della provincia e cinquanta
uomini della colonna Pianciani che, reduce da Urbino - oramai in mano ai
Tedeschi -, si erano portato dietro come prigionieri alcuni carabinieri della
compagnia urbinate.
I commissari al seguito delle truppe del Pianciani, addetti al
sostentamento e alla difesa del corpo, furono costretti a rivolgersi ai vari
comuni della zona per ottenere vettovaglie, vestiario e denaro. Qualcuno non ne
fu affatto contento anche perché si trattava di prestiti forzosi ai quali era
ben difficile opporsi.
Il 16 giugno giunse a Gubbio anche una seconda colonna forte di 6-700
militi comandata dall’inglese Ugo Forbes. Chiesero subito alloggio per gli
ufficiali e 80 paia di scarpe.
Tra il 18 e il 19 le truppe partirono divise in due colonne, una
per Gualdo Tadino e l’altra per Perugia in quel momento libera da truppe
imperiali. Per quest’ultima località il comune di Gubbio dovette approntare
carri, buoi e una vettura per il trasporto degli uomini e dei materiali.
Il 19 furono inviati a Perugia anche i 13 carabinieri catturati ad
Urbino sotto la scorta di 15 svizzeri e di 15 soldati della Guardia Civica di
Gubbio. Il 20 giugno mattina partirono gli ultimi soldati svizzeri con il
commissario Froncini e gli altri esponenti dell’amministrazione repubblicana.
Gli Austriaci a Gubbio.
Il 20 giugno a sera, 700 Austriaci entrarono in Gubbio: anche loro
chiesero 100 paia di scarpe! Una parte della truppa trovò ospitalità presso i
locali del convento di San Francesco, il resto fu albergata nel complesso di San
Pietro. Gli ufficiali vennero accolti dalla famiglie più in vista della città.
Due giorni dopo una parte delle truppe proseguì verso Branca per
Foligno e l’altra aliquota si spostò in direzione di Perugia.
La battaglia finale e la resa di Roma
Fallite le trattative tra Mazzini e il plenipotenziario di Oudinot,
De Lesseps, il 3 giugno vi fu un nuovo attacco dei Francesi. Ancora una volta
toccò a Garibaldi chiudere la falla. I combattimenti principali si svolsero
attorno a Villa Corsini, chiave del sistema difensivo romano.
Per tre volte la villa fu ripresa e persa. In questa sfortunata
azione morirono Enrico Dandolo, Angelo Masina, Francesco Daverio. Goffredo
Mameli, ferito, morì poco dopo.
La situazione nella capitale si fece di giorno in giorno sempre più
complicata. I soldati si godevano come meglio potevano gli ultimi giorni della
Repubblica.
I Francesi, infatti, ricevettero numerosi rinforzi via mare e
l’insurrezione parigina del 13 giugno fu ben presto soffocata da Luigi Napoleone
e per i romani crollò ogni speranza di uscire incolumi dall’assedio.
Il 21 e 22 giugno i Francesi attaccarono ancora sul Gianicolo.
Il 29 giugno scattò l’attacco finale francese con un furioso
bombardamento dell’Urbe seguito dall’avanzata concentrata di due colonne.: la
prima su Villa Spada, l’altra da casa Barberini a Villa Spada.
Il 30 giugno i Francesi assaltarono le trincee di San Pancrazio, difese
dal reggimento Rosselli, facendo numerose vittime tra gli italiani.
I Francesi ebbero praticamente partita vinta. Fallite le trattative
con il municipio romano per l’ingresso delle truppe, Oudinot diede l’ordine
dell’assalto finale. Il primo luglio Mazzini convocò i capi militari per
decidere il da farsi.
Fu allora approvata la celebre dichiarazione:
“L’Assemblea Costituente romana cessa da una difesa divenuta
impossibile e sta al suo posto”.
Il giorno dopo, come canto del cigno, l’Assemblea promulgò la
costituzione.
L’Assemblea, inoltre, concesse a Rosselli e a Garibaldi i pieni
poteri nei territori teoricamente ancora dipendenti dalla Repubblica.
Il generale Oudinot, padrone di Roma, emanò vari decreti per cercare di
normalizzare la situazione nella città Eterna. Vennero abbattute tutte le
insegne repubblicane, chiusi i giornali, rimpatriati a forza le migliaia di
persone che si erano ivi recate ai tempi della repubblica.
Anche gli eugubini tornarono a casa. Alcuni di essi, ammalati,
furono ricoverati nel civico ospedale e lì si trovarono fianco a fianco con
alcuni commilitoni austriaci.
Da Perugia a Gubbio transitarono centinaia di reduci, disarmati, a
cui il comune diede una piccola sovvenzione in viveri e in mezzi di trasporto.
Questa processione durò circa due mesi.
Gli eugubini alla difesa di Roma
Con le conoscenze attualmente disponibili resta ancora difficile
individuare esattamente a quali corpi vennero assegnati i militi e i volontari
eugubini.
Sicuramente furono a Roma due nuclei: uno nelle truppe regolari (battaglione di
Pesaro) e l’altro nei volontari.
In particolare ricordo che il 5 maggio partì da Gubbio il gruppo di
volontari guidato dal sottotenente
Angelico Fabbri: furono in sedici a recarsi
a Perugia con un carro. I volontari, in considerazione del fatto che avrebbero
potuto trovarsi isolati da Gubbio, ottennero per intero la prevista sovvenzione
comunale. Il 24 maggio partirono altri quattro volontari.
Il generale Avezzana, ministro della guerra della Repubblica
Romana, con effetto immediato dal 28 maggio, nominò Angelico Fabbri capitano nel
Battaglione Nazionale Mobilizzato Provinciale.
L’incarico fu controfirmato da Garibaldi.
E’ molto probabile che questi ultimi fossero assegnati ai vari corpi
franchi e qualcuno di loro finì sicuramente per indossare la mitica camicia
rossa (che, per ragioni organizzative, si diffuse solo a partire dal 28 giugno).
Oltre all’Andreoli e al Fabbri ricordo Nicola Braura e Domenico
Capobianchi che militarono agli ordini del generale Giuseppe Galletti.
Nei combattimenti di fine giugno rimasero uccisi gli eugubini Luigi
Giovagnoli e Nazareno Mantovani.
Eugenio Bruni e Adamo Tinti con Garibaldi da Roma a Venezia
Entrati i Francesi in Roma, Garibaldi si recò in piazza San
Giovanni con 4.700 volontari e iniziò la celebre ritirata verso nord.
Durante il tragitto numerosi furono i casi di abbandono e diserzione (ammesso
che questo termine avesse un senso nella particolare e difficilissima situazione
in cui per più giorni manovrarono i reduci repubblicani). Le fila dei seguaci
del generale si assottigliarono in poco tempo.
Attraversata tutta l’Italia centrale tra enormi difficoltà, ridotte
all’osso le sue milizie, inseguito in varie fasi da circa 86.000 uomini tra
Austriaci, Francesi, Spagnoli, Toscani e Napoletani, sfiduciato dal mancato
appoggio e dalla mancata insurrezione delle città attraversate, Garibaldi
raggiunse San Marino il 31 luglio. Aveva ancora con se circa 1.400 uomini.
Sfuggito alla feroce caccia degli Austriaci, Garibaldi trattò con
la Repubblica del Titano le garanzie per chi avrebbe accettato di consegnare le
armi. Il comandante della Legione Italiana decise quindi di sciogliere quanto
restava delle sue truppe e di tentare una sortita dal mare verso Venezia.
Il 2 agosto, con gli ultimi 250 fedelissimi, raggiunse Cesenatico e
si imbarcò con i suoi uomini su dodici bragozzi e una tartana.
Il 3 agosto, sulla rotta per Venezia, vennero scoperti dall’imperial-regio
brigantino Oreste. Sospinti verso Goro, i legni garibaldini cominciarono ad
arrendersi. Otto bragozzi furono catturati; due si incagliarono – e su uno di
questi era Garibaldi con Anita – e tre riuscirono a raggiungere la riva. Truppe
Croate a terra inseguirono a catturarono alcuni dei fuggiaschi. Garibaldi si
salvò, mentre Anita, come noto, morì nelle valli di Comacchio.
Gli Austriaci radunarono i prigionieri e li imbarcarono sull’Oreste
per condurli parte a Porto Tolle e, in maggior numero, nel forte di Pola.
Iniziò così la caccia agli scampati.
Per i collaboratori era prevista la fucilazione. Dei volontari momentaneamente
sfuggiti alla cattura furono in seguito catturati e fucilati Ciceruacchio, i
figli Lorenzo (tredicenne) e Luigi, il padre barnabita Ugo Bassi ed altri.
Tra i 162 prigionieri garibaldini presi dagli austriaci vi furono
anche alcuni umbri e tra loro - come già detto - gli eugubini Eugenio Bruni
(aveva allora 16 anni; durante la Prima guerra d’Indipendenza era stato
tamburino nei volontari eugubini) e Adamo Tinti, diciassettenne.
Dalla documentazione da me rintracciata, dalle ultime pubblicazioni edite
segnalatemi da Marco e Basilio Tinti, e dai suggerimenti fornitimi dal prof.
Stefano Orazi, presidente della sezione di Pesaro-Urbino dell’Istituto per la
storia del Risorgimento italiano, risulta che Bruni e Tinti, dopo la cattura,
furono portati in catene da Porto Tolle a Pola; poi, su ordine del generale
Radetzky, condotti a Caorle e a Mantova, luogo finale di prigionia per i
cittadini pontifici che avevano militato nella “banda” di Garibaldi. Secondo le
direttive di Radetzky i “caporioni” (cioè i comandanti) avrebbero dovuto subire
dure pene corporali, mentre allo stato attuale delle ricerche si ignora la sorte
precisa toccata ai soldati di truppa.
Fatto sta che dopo qualche tempo ritroviamo sia Tinti sia Bruni a
Gubbio.
Per concludere
L’11 agosto 1849 la pressione congiunta degli eserciti austriaco e
russo mise fine alla rivoluzione ungherese. Venezia, che già il 2 aprile aveva
proclamato la resistenza ad oltranza, continuò a battersi con il sostegno
diretto e indiretto di molti patrioti e di vari comuni italiani. Il 23 agosto,
ricevuto il potere da Daniele Manin, la municipalità della città iniziò le
trattative di resa che si conclusero il 26 agosto.
I primi anni cinquanta furono durissimi per gli eugubini,
sia in campo patriottico, sia in quello socio economico. La “normalizzazione”
guidata da mons. Pecci, la cronica mancanza di lavoro, una tremenda carestia e
la tragica epidemia di colera del 1855, stroncarono qualsiasi ideale di libertà
e costrinsero alcuni patrioti eugubini a venire a più miti consigli e,
addirittura, ad arruolarsi nelle milizie pontificie.
Non tutti, però, cedettero alle tragiche circostanze. Fu proprio un
pugno di tenaci propugnatori dell’Unità italiana, soprattutto professionisti e
quindi economicamente avvantaggiati, a tenere viva anche a Gubbio la fiamma
degli ideali di indipendenza e di libertà destinati a realizzarsi di lì a pochi
anni.